Pubblica Amministrazione: la fine del posto fisso

9 Gennaio 2012
Scarica PDF Stampa
Modifica zoom
100%
Chi è stato assunto qualche lustro fa nella pubblica amministrazione ha fatto una precisa scelta. Nel privato non c’era ancora la crisi, gli stipendi erano più alti, ma nel pubblico, oltre alla garanzia del posto fisso (che tutto sommato di fatto poteva esserci anche in alcuni settori del privato), c’era la possibilità di una maggior tutela e di un pensionamento “privilegiato”.

 

Si ricorderà infatti il caso dei baby pensionamenti o, comunque, di dipendenti pubblici che, dopo 25/26 anni di onorato servizio, potevano lasciare a testa alta il posto di lavoro percependo una pensione, pur non al 100% rispetto allo stipendio, ma comunque sufficiente a campare. Senza dimenticare l’età anagrafica al di sotto dei cinquantenni che consentiva di dedicarsi ad altro.

 

Ora, dopo le ultime manovre, oltre a vedere la pensione come allontanarsi come la barca per un naufrago in mezzo al mare (si parla di 67 anni di età, per cui chi come chi scrive è entrato nel mondo del lavoro a 19 anni, vedrà l’agognata pensione dopo 48 anni di contributi), scompare anche il mito del posto fisso.

 

Sono infatti entrate in vigore, il primo gennaio 2012, le nuove norme per la disciplina del lavoro pubblico inserite nella legge di stabilità (n. 183 del 2011). E’ vero che il percorso per licenziare è pieno di ostacoli, ma è altrettanto vero che è caduto un mito.

 

Primo adempimento è quello della obbligatoria ricognizione annuale sulla dotazione organica fissata dalla legge.  In difetto, sanzioni disciplinari per il dirigente preposto e la decadenza delle assunzioni effettuate nell’anno in corso. Stesse conseguenze ed adempimenti per collaborazioni coordinate e continuative, consulenze e contratti a progetto.

 

Qualora sia accertato l’esubero di personale dipendente, gli enti debbono far scattare procedure previste dalla legge che tendono alla ricollocazione del lavoratore all’interno dello stesso ente, dell’amministrazione di appartenenza oppure ad una mobilità fra enti oppure, ancora, interdipartimentale: in questo ultimo caso previo parere favorevole dell’ente di “arrivo”. Il dipendente che ha 40 anni di anzianità contributiva non gode di questa procedura di ricollocazione e, previo preavviso di 10 giorni, vedrà il proprio rapporto di lavoro cessare.

 

La norma che prevede la possibilità di risoluzione del rapporto di lavoro con decisione unilaterale dell’ente nei confronti dei lavoratori con 40 anni di contributi deve essere certamente modificata e coordinata col “decreto Monti” : il decreto appena entrato in vigore prevede infatti un minimo di 42 anni di contributi ed una penale per chi, quando il nuovo sistema sarà a regime, andrà in pensione prima del compimento del sessantasettesimo anno di età. Le due norme contrastano fra loro: da un lato l’ente pubblico che può licenziare il dipendente quando matura 40 anni di contributi, dall’altro lo Stato che sanziona con una penale chi non raggiunge l’età di 67 anni sul posto di lavoro. Vedremo.

 

Ma torniamo alla mobilità a seguito di accertato esubero di personale. Trascorsi senza esito positivo 90 giorni alla ricerca di collocazioni alternative l’amministrazione ha facoltà di provvedere al collocamento in “disponibilità” dei dipendenti. Dopo 24 mesi di disponibilità, con lo stipendio all’80%, scatta il licenziamento.