Mobbing: necessario l’intento persecutorio del datore di lavoro perché si configuri il reato

La Corte di Cassazione, con Sentenza n. 2142/2017, nell’esaminare il caso di mobbing riguardante un agente di Polizia Municipale che ha subito abusi e umiliazioni sul luogo di lavoro, preordinate e volute per finalità ritorsive, ricorda gli elementi fondamentali affinché si configuri il reato

10 Febbraio 2017
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La fattispecie esaminata dalla Cassazione riguarda un agente di Polizia Municipale che ha subito abusi e umiliazioni sul luogo di lavoro, preordinate e volute per finalità ritorsive, avendo l’agente dato luogo a rimostranze, prima in sede extragiudiziaria e poi giudiziaria, in presenza di determinazioni datoriali che egli riteneva illegittime.

Una persecuzione mirata, motivata da causa precisa e cagione di un danno biologico comprovato

Nel caso in questione, tra le numerose testimonianze riportate in Sentenza a sostegno della condanna, si cita come “Il lavoratore venne assegnato allo svolgimento delle pratiche cimiteriali, con sede stabilita presso gli uffici cimiteriali. Dalle deposizioni testimoniali era emerso che fu accompagnato all’entrata del cimitero e gli fu detto che quella era la sua sede di lavoro”.

Grazie a tali testimonianze è stato possibile ricostruire una persecuzione mirata, motivata da una causa precisa e cagione di un danno biologico comprovato. Rileva anche il comportamento degli altri agenti in servizio nel Comune in questione “che allontanano il soggetto scomodo temendo a loro volta di essere oggetto di condotte ritorsive” e si rifiutano di testimoniare.

Gli elementi che configurano il reato di mobbing

La Cassazione, nell’esporre le motivazioni che sottostanno alla conferma della condanna, ricorda i numerosi elementi atti a configurare il reato di mobbing:

  • una serie di comportamenti di carattere persecutorio, anche leciti se considerati singolarmente, che siano posti in essere contro la vittima in modo miratamente sistematico e prolungato nel tempo, dal datore di lavoro o da suoi sottoposti;
  • una lesione della salute, della personalità o della dignità del dipendente;
  • una connessione causale fra i fatti sopra descritti e il pregiudizio subito dalla vittima;
  • l’elemento soggettivo, cioè l’intento persecutorio unificante dei comportamenti lesivi.

Risarcimento: occorre provare il nesso causale fra danno e persecuzione subiti

Qualora il lavoratore riesca a provare, come in questo caso, il rapporto causale fra il danno subito e le persecuzioni subite sul lavoro, ha diritto a essere risarcito. La Cassazione, quindi, procede con il respingimento del ricorso proposto dal datore di lavoro e ne conferma della condanna.

Corte di Cassazione, Sentenza 27.1.2017, n. 2142