Caduta del ciclista determinata da un tombino: non può essere imputata all’Ente proprietario della strada se l’andatura è lenta

Approfondimento di Cino Augusto Cecchini

6 Luglio 2022
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Non è imputabile al Comune, Ente proprietario della strada, la caduta di un ciclista il quale affermava che l’evento si sarebbe verificato a causa di un tombino che aveva una feritoia talmente ampia da consentire alla ruota della bicicletta di finirvi dentro, rimanendo incastrata.

La Corte di Cassazione alla luce, in particolare, della sentenza della competente Corte d’Appello ha ritenuto che gli elementi acquisiti inducono a ritenere che la caduta fosse stata il frutto di una disattenzione del ciclista, tanto più evidente in considerazione della bassa velocità alla quale egli stava procedendo; disattenzione di per sé sufficiente ad integrare gli estremi del caso fortuito, in quanto idonea ad interrompere il nesso di causalità tra la cosa in custodia e il danno.

IL CASO

Un signore convenne in giudizio il Comune di Xxxxx davanti al Tribunale, chiedendo che l’Ente pubblico fosse condannato al risarcimento dei danni da lui patiti a seguito di una caduta dalla bicicletta verificatasi, a suo dire, a causa della presenza di un tombino nel quale era andata ad incastrarsi la ruota anteriore della sua bicicletta.

Si costituì in giudizio il Comune convenuto, chiedendo il rigetto della domanda. Espletata la prova per testi e fatta svolgere una c.t.u. medico-legale, il Tribunale accolse in parte la domanda e condannò il Comune al risarcimento dei danni liquidati nella somma complessiva di euro 110.794,83 oltre interessi, compensando le spese di giudizio.

La pronuncia era stata impugnata in via principale dall’attore e in via incidentale dal Comune di Xxxxx.

La competente Corte d’Appello accoglieva l’appello incidentale e, in totale riforma della sentenza del Tribunale, rigettava la domanda del danneggiato, compensando integralmente tra le parti le spese dei due gradi di giudizio.

Contro la sentenza della Corte d’Appello ricorreva in Cassazione l’attore con atto affidato a tre motivi. Resisteva il Comune di Xxxxx con controricorso.

Con il primo motivo di ricorso il danneggiato lamentava, in riferimento all’art. 360, primo comma, n. 5), c.p.c., violazione dell’art. 116 c.p.c. nonché carenza e contraddittorietà della motivazione. Lamentava il ricorrente che la Corte d’Appello non avrebbe considerato che oggetto del giudizio non era la regolarità del piano stradale, quanto l’efficacia della caditoia esistente, la quale aveva una feritoia talmente ampia da consentire alla ruota della bicicletta di finirci dentro, rimanendo incastrata. Il motivo censurava anche l’affermazione della sentenza secondo cui sul luogo del sinistro vi era, al momento della caduta, una sufficiente illuminazione.

Con il secondo motivo di ricorso lamentava, in riferimento all’art. 360, primo comma, n. 3), c.p.c., violazione e falsa applicazione degli artt. 39, 50, 140 e 143 C.d.S., nonché dell’art. 96 del relativo Regolamento di Esecuzione, sottolineando come il comportamento del ciclista fosse stato da ritenere assolutamente corretto, contrariamente a quanto affermato dalla Corte d’Appello.

Da ultimo con il terzo motivo di ricorso lamentava, in riferimento all’art. 360, primo comma, n. 3), c.p.c., violazione e falsa applicazione degli artt. 1227, primo comma, 2043 e 2051 c.c., nonché dell’art. 14 C.d.S., sul rilievo che la caditoia in questione costituiva certamente un’insidia e che il Comune non aveva verificato la sicurezza della strada, per cui la sentenza sarebbe errata nella parte in cui aveva posto a carico del ricorrente la responsabilità esclusiva dell’accaduto.

COSA HA DETTO LA CORTE DI CASSAZIONE 

(Cass. Civ. Sez. VI – 3, ord. 23 maggio 2022, n. 16568)

I Giudici della Suprema Corte hanno ritenuto che i motivi dovessero essere trattati congiuntamente in considerazione dell’evidente connessione tra loro esistente e sono stati giudicati quando non inammissibili, comunque privi di fondamento.

Gli Ermellini hanno voluto premettere che la Corte di Cassazione, sottoponendo a revisione i principi sull’obbligo di custodia, aveva stabilito, con le ordinanze 10 febbraio 2018, nn. 2480, 2481, 2482 e 2483, che in tema di responsabilità civile per danni da cose in custodia, la condotta del danneggiato, che entri in interazione con la cosa, si atteggia diversamente a seconda del grado di incidenza causale sull’evento dannoso, in applicazione, anche ufficiosa, dell’art. 1227, primo comma, c.c., richiedendo una valutazione che tenga conto del dovere generale di ragionevole cautela, riconducibile al principio di solidarietà espresso dall’art. 2 della Costituzione. Ne consegue che, quanto più la situazione di possibile danno è suscettibile di essere prevista e superata attraverso l’adozione da parte del danneggiato delle cautele normalmente attese e prevedibili in rapporto alle circostanze, tanto più incidente deve considerarsi l’efficienza causale del comportamento imprudente del medesimo nel dinamismo causale del danno, fino a rendere possibile che detto comportamento interrompa il nesso eziologico tra fatto ed evento dannoso, quando sia da escludere che lo stesso comportamento costituisca un’evenienza ragionevole o accettabile secondo un criterio probabilistico di regolarità causale, connotandosi, invece, per l’esclusiva efficienza causale nella produzione del sinistro.

I Giudici del Palazzaccio hanno evidenziato che questi principi, ai quali la giurisprudenza successiva si era più volte uniformata (vedasi, tra le altre, le ordinanze 29 gennaio 2019, n. 2345, e 3 aprile 2019, n. 9315), dovevano essere ribaditi ulteriormente nel giudizio de quo.

Tanto premesso, il Collegio ha rilevato che la Corte d’Appello, con un accertamento in fatto non rivisitabile in sede di legittimità, era pervenuta alla conclusione di dover attribuire l’intera responsabilità dell’accaduto all’attore, sulla base di una serie di considerazioni. La sentenza impugnata aveva infatti osservato che il tombino nel quale andò ad infilarsi la ruota della bicicletta era perfettamente visibile, in quanto di colore nettamente diverso rispetto alle pietre che costituivano il piano stradale; che l’illuminazione pubblica era sufficiente, essendo avvenuta la caduta subito dopo il passaggio di una processione religiosa; che il danneggiato stava percorrendo la strada contromano, cioè sul lato sinistro.

Tali elementi inducevano a ritenere che la caduta fosse stata il frutto di una disattenzione del ciclista, tanto più evidente in considerazione della bassa velocità alla quale egli stava procedendo; disattenzione di per sé sufficiente ad integrare gli estremi del caso fortuito, in quanto idonea ad interrompere il nesso di causalità tra la cosa in custodia e il danno.

A fronte di tale ricostruzione, il ricorrente opponeva la propria (diversa) valutazione dei fatti di causa, sostenendo che la sentenza non avrebbe considerato le dimensioni della caditoia e la natura insidiosa della stessa, senza considerare che la Corte d’Appello aveva avuto cura di precisare che, una volta esclusa la responsabilità del Comune ai sensi dell’art.2051 c.c., ne rimaneva esclusa anche quella di cui all’art. 2043 c.c., per le ragioni già indicate.

Le censure, in sostanza, finivano col tradursi nella riproposizione del vizio di motivazione secondo il precedente testo dell’art. 360, primo comma, n. 5), cit., sollecitando in Cassazione un nuovo e non consentito esame del merito.

Per tutte questa ragioni, pertanto, la Suprema Corte ha rigettato il ricorso.

A tale esito ha fatto seguito la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di Cassazione, liquidate in complessivi curo 7.000, di cui euro 200 per esborsi, oltre spese generali e accessori di legge. Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, è stato poi dato atto della sussistenza delle condizioni per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, se dovuto.

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