Falsa dichiarazione di identità: è reato mostrare la tessera sanitaria di altri a pubblico ufficiale

Intervento della Corte di Cassazione nel caso di ricorso proposto per condanna di  falsa dichiarazione di identità e rifiuto di fornire le proprie generalità

1 Febbraio 2017
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Reato ex art. 496 del Codice Penale “false dichiarazioni sulla identità o su qualità personali proprie o di altri”: è sufficiente mostrare a un pubblico ufficiale una tessera sanitaria che riporta generalità di terzi.

Lo chiarisce la Corte di Cassazione con una recente sentenza. L’imputato presentava ricorso contro la condanna sulla base della non equiparazione fra la tessera sanitaria e i documenti di riconoscimento (ai sensi art. 35, comma 2, d.P.R. n. 444 del 2000) ma l’art 496 punisce, ricordano i giudici, “la condotta di chi renda dichiarazioni mendaci sulla identità propria a un pubblico ufficiale”. In questo senso l’esibizione di un supporto, di qualsiasi tipo esso sia, riportante i dati anagrafici di un’altra persona, è una condotta sanzionabile.

False generalità a pubblico ufficiale: il tipo di documento è importante?

La natura del documento contenente le false generalità è del tutto irrilevante. Nell’integrazione del reato preso in esame risulta equivalente che la falsa dichiarazione sia testimoniata da un supporto di qualche tipo o sia fornita verbalmente.

“La natura del documento e la sua inidoneità a porsi come documento di identità diviene quindi del tutto irrilevante ai fini dell’integrazione del reato di cui all’art. 496 cod. pen. e come tale la stessa è stata correttamente intesa dal Tribunale, per operato richiamo a giurisprudenza di questa Corte che si è formata su fattispecie in cui, la natura del documento esibito assume, nella struttura del contestato reato, carattere meramente accidentale nella rilevante ed evidenziata equivalenza della mera condotta di esibizione di documenti, per le indicazioni ivi contenute, con quella di verbale declinazione delle proprie generalità del soggetto”

Leggi la sentenza n. 645 del 9.1.2017 della Corte di Cassazione